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 Index du Forum -> Clubs et associations -> La Stampa - Il queer reggae dei Pellicans


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aderfp633



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MessagePosté le: Sam Sep 28, 2013 5:30 pm    Sujet du message: La Stampa - Il queer reggae dei Pellicans Répondre en citant

{La Stampa - Il queer reggae dei Pellicans}
Intervista a Samuele Pigoni, chitarrista della band piemontese che domani sera a Villar Pellice presenta al pubblico la sua ultima fatica, “Dancing boy”da www.digi.to.it - valentina esposito“Dancing boy” è un disco difficile da classificare,[url=http://woolrich-outlet-online.blogspot.com]woolrich arctic parka[/url], a detta degli stessi autori, i Pellicans, che l’hanno pensato, scritto e suonato. Il reggae che porteranno sul palco di Villar Pellice,domani sera, non è certo quello che ci si aspetterebbe: contaminazioni di pop e indie accompagneranno il pubblico verso la comprensione dell’identità del gruppo, eterogenea e creativa,”queer“, appunto. Samuele Pigoni, il chitarrista, racconta la musica e le impressioni della band riguardo il loro secondo e ultimo album.Come mai avete scelto il nome “Pellicans” per il gruppo?«E’ terribile. Era la data del nostro primo concerto e non avevamo un nome. Visto che abitavamo quasi tutti in Val Pellice, qualcuno del gruppo propose quel nome dicendo che faceva molto anni ‘60. Lo abbiamo tenuto perché è sufficientemente ridicolo».Come è nata la band? E dove vi siete formati, a livello musicale?«Non esiste una vera e propria data a cui far risalire la nascita, infatti come per tutti i gruppi agli inizi, si registrano vari cambiamenti di formazione e di stile. Sicuramente la svolta verso un atteggiamento meno dilettantistico avviene con l’ingresso nel gruppo dell’attuale cantante Roberto Pretto, conosciuto fino ad allora come Priscilla dei Disco Inferno. E’ il periodo in cui smettiamo di suonare cover e iniziamo a scrivere i pezzi insieme a Luciano Kovacs, caro amico italianissimo ma residente a New York, che scrive i nostri testi. Tra il 2006 e il 2010 il gruppo si divide tra i live e le registrazioni in studio. Grazie al supporto del chitarrista degli Africa Unite Ruggero Catania nasce il primo disco intitolato “Lunapark Underground”, che abbiamo autoprodotto».Come mai avete deciso di unire strettamente la vostra musica a un gesto, “giocare” con le identità sessuali, che voi stessi avete definito “politico”? Cosa intendete per “gesto politico”?«Per noi il personale è politico. Quindi non esistono gesti artistici che non siano responsabili di implicazioni politiche, semplicemente perché ogni comunicazione vive in un contesto sociale e veicola messaggi. A noi piace pensare che la musica, pur essendo evasione e divertimento, possa dare da pensare e stimolare, eventualmente, al cambiamento in meglio dei rapporti sociali».Cosa volete trasmettere al vostro pubblico?«Viviamo in un paese in cui l’amore, le relazioni tra i generi, l’idea di famiglia, sono fortemente condizionati da pregiudizi e dogmi. Vorremmo che le idee sull’amore, sulla femminilità e la maschilità, l’immagine che abbiamo della serenità corrispondessero alle persone e ai loro desideri. E non viceversa. Nel gruppo siamo gay, altri etero e bisex: questa molteplicità di sfumature la vogliamo riconosciuta nella società».Dato che non vi riconoscete nel reggae “tradizionale”, a chi vi ispirate?«Il nostro genere sostanzialmente è reggae, anche se le melodie vengono da un attitudine decisamente indie e pop. In ogni caso è frutto di quello che siamo e non di una scelta studiata a tavolino. Ascoltiamo di tutto. A chi ci ispiriamo? E’ stato divertente leggerlo nelle recensioni del nuovo disco: UB40, Ziggy Marley, Aloe Blacc…».Come reagisce il pubblico alla vostra musica? Il messaggio che volete trasmettere viene compreso, secondo voi?«Ci sembra di sì. Chi capisce i nostri testi ci ringrazia per le cose che diciamo. Certo il limite linguistico c’è: scriviamo in inglese e non tutti capiscono i testi. La musica crediamo diverta e rilassi chi ci ascolta, e questo non è poco».Avete incontrato difficoltà nel vostro processo creativo e musicale, anche magari a livello personale o sociale?«Creare per noi non è un processo facile. Il nostro cantante indossa spesso una maglietta con su scritto ‘it’s not easy’. Litighiamo tanto ma sappiamo che quella tensione, quello scontro, porteranno a dei risultati nei quali riconoscersi. A livello sociale stiamo vivendo un epoca in cui nulla è facile. Nel nostro Paese non è facile studiare, lavorare, essere autonomi. Suonare ai nostri livelli è, economicamente, disastroso. Ma non puoi farne a meno».Come è nato il vostro ultimo album?«”Dancing Boy” è nato dalla volontà di scrivere un album omogeneo, stilisticamente, e che fosse al tempo stesso ricco di sfumature emotive. Alcune canzoni sono decisamente ballabili e quasi allegre, altre molto malinconiche e lente. E’ un album compatto, scritto di getto e arrangiato direttamente in sala prove. L’idea era di comporre un disco che suonasse come un live. Il titolo evoca l’immagine di un ragazzino che balla, tra Billy Elliot e “Balla Balla Ballerino” di Dalla: così ci sentiamo e così ci piace immaginare di affrontare la vita e le sue difficoltà».Avete in mente altri brani, magari un tour? Come vi vedete tra dieci anni?«Per ora l’importante è suonare il più possibile nei locali. Abbiamo già alcuni nuovi brani che in autunno proveremo a suonare in vista di un nuovo disco. Tra dieci anni? Ci vediamo alla ricerca e, of course, dancing boys».Conoscete i Pellicans? Andrete al loro concerto?Commenta questo articolo su Digi.TO, il magazine on line dell'Informagiovani di TorinoLeggi gli altri articoli di Digi.TO
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